Monday, April 30, 2007

Il 20 aprile raccontato dal giornalista Nico Pirozzi sul giornale L’Avanti

I fantasmi di Amburgo 24/04/2007

È stato il “kaddish”, la preghiera con la quale ogni ebreo credente ricorda i defunti, a fare, anche quest’anno, da scomoda e ingombrante colonna sonora al giorno in cui Amburgo torna a fare i conti con il suo passato nazista. Un passato raccontato dai volti seriosi di dieci bambini e altrettante bambine che l’obiettivo di una vecchia reflex ha bloccato col torso nudo e il braccio alzato, come a voler mostrare qualcosa che l’occhio di chi guarda non riesce a cogliere. Il calendario dice che sono passati sessantadue anni da quella maledetta notte, ma i fantasmi della cattiva memoria di Amburgo continuano ad abitare il tetro edificio in mattoni d’argilla rossa di Bullenhuser Damm: l’ex scuola della periferia industriale della città tedesca, nei cui sotterranei la notte tra il 20 e il 21 aprile 1945 furono impiccati venti bambini ebrei, due medici francesi e due infermieri olandesi che erano stati i loro accompagnatori nel breve viaggio da Neuengamme ad Amburgo, e ventiquattro prigionieri sovietici. Tra quei nomi anche quello di un italiano. Un napoletano, per la precisione. Sergio De Simone aveva da poco compiuto sette anni, quando un assassino travestito da medico, Kurt Heissmeyer, inietto a lui, e agli altri 19 “jüdische Kinder”, il bacillo della tubercolosi. Tutti venti avevano già conosciuto l’inferno di Auschwitz, prima di arrivare nella baracca 4a del lager di Neuengamme, il 29 novembre 1944. In quel nuovo abisso, fatto di rauchi comandi e rari sorrisi, impararono a convivere anche con l’infezione che Heissmeyer aveva loro regalato tre giorni dopo l’Epifania del 1945. Intanto, stretto in una tenaglia di fuoco, con i sovietici già padroni di Vienna e in procinto di entrare a Berlino, e i tank americani e inglesi già alla periferia di Brema e Lipsia, il Reich di Hitler si apprestava a vivere gli ultimi giorni di agonia. Ad Amburgo c’è fretta di cancellare le tracce di una imbarazzante connivenza, che metterebbero nei guai più di una persona. Di Neuengamme, di quell’inferno di cinquanta ettari, battuto da un vento che taglia corpo e pensieri, dove per anni decine di migliaia di deportati hanno lavorato come schiavi a scavare canali e argilla, non deve restare prova alcuna. I primi a evacuare sono i prigionieri scandinavi, che a bordo di camion della Croce Rossa vengono instradati verso la Danimarca. I bambini sono sempre lì, nella baracca-laboratorio del dottor Heissmeyer. Max Pauly, il comandante del campo, sa bene che la loro presenza all’interno del lager non potrebbe essere giustificata da nessuna motivazione scientifica. Il 20 aprile è Berlino a decidere della loro sorte: vanno eliminati. Subito. L’operazione non può essere compiuta nel campo, dove stazionano alcuni mezzi della Croce Rossa svedese. I bambini già dormono da alcune ore. Vengono svegliati. Sono assonnati e fanno i capricci. Per convincerli ad alzarsi viene detto loro che sarebbero stati portati dai genitori. Cominciano a vestirsi, prendono i bagagli. I più piccoli anche i giocattoli. Sul camion, assieme ai bambini, salgono anche i medici francesi René Quenouille e Gabriel Florence, i due infermieri olandesi Anton Holzel e Dirk Deutekom, sei prigionieri russi e tre SS (Wilhelm Dreimann, Heinrich Wieagen e Adolf Speck); in cabina di guida prendono invece posto il medico del campo (Alfred Trzebinski) e l’autista (Hans Friedrich Petersen). Un quarto d’ora dopo i fari del camion illuminano lo spiazzale del subcampo di Bullenhuser Damm e il grosso edificio di mattoni rossi che sorge di lato. Ad attendere i prigionieri c’è il comandante del presidio, l’Obersturmführer delle SS Arnold Strippel. Il gruppo viene condotto nei sotterranei del fabbricato, che come un fantasma di pietra domina le macerie di Amburgo. I primi a essere giustiziati, con un cappio stretto alla gola, sono i medici francesi e gli infermieri olandesi. Poi i sei sovietici. Ai venti bambini, che non si sono ancora resi conto di quello che di lì a poco sarebbe loro successo, viene detto che devono fare una puntura. Trzebinski, il medico del campo, estrae una siringa e della morfina. Uno alla volta i piccoli si stendono su uno sgabello per fare quella che credono una vaccinazione. Il narcotico non tarda a entrare in circolo. In stato di semincoscienza vengono presi in braccio uno alla volta e condotti in una stanza attigua, dove li attende un gancio e una corda. I bambini furono impiccati “come quadri alle pareti”, testimonierà innanzi ai giudici del tribunale inglese, Johann Frahm, uno dei boia. La mattanza andò avanti per tutta la notte, si concluse all’alba, con il massacro di altri diciotto prigionieri sovietici. Dei responsabili solo alcuni pagarono per i loro crimini. Ci vollero, infatti, più di vent’anni per portare alla sbarra Kurt Heissmeyer, mentre Arnold Strippel, l’ufficiale che diresse il massacro alla Bullenhuser Damm, non comparì mai davanti a un giudice. Ma Amburgo ha fretta di dimenticare. Di chiudere con un passato ingombrante, con il quale nessuno - o quasi - ha voglia di confrontarsi. Ieri come oggi. A ricordare della tragica notte al Bullenhuser Damm resta oggi lo ieratico profilo di Guenther Schwarberg, il giornalista dello “Stern” che da sessant’anni si batte per dare giustizia a quelli che oramai considera i “suoi” venti bambini, e un roseto: il roseto dei 20 “jüdische Kinder”, che qualcuno dice essere il più bello di Amburgo. Un giardino già in fiore anche se il 20 aprile ad Amburgo continua a fare molto freddo. Come se la primavera non dovesse mai arrivare.
Nico Pirozzi

Wednesday, April 11, 2007

11 aprile....
Il ricordo corre all'11 aprile del 1987.
Primo Levi lascia il suo posto di "testimone" oculare, ci abbandona, ci fa sentire soli...
Per chi ama la "memoria" è stato un lutto tremendo, ancora sento il nodo alla gola, la voce mi si spezza, non trovo risposte... rivedo il collega che socchiude la porta della classe e mi sussurra quelle tre terribili parole:"è morto Levi".
Poi sarà un'inutile ricerca del come e del perchè, ma niente e nessuno saprà mai la verità.
Primo ci lascia un testamento d'amore e di dolore di oceanica dimensione, ci lascia un'eredità preziosissima, ci invita ad essere "testimoni", innamorati di quell'uomo che non è più uomo.
La "porta della memoria" ha oggi l'onore di spalancarsi sul drammatico monito di Primo:

Se questo è un uomo

"Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi."

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino)